La bolla della pandemia ha dopato interi segmenti dell’economia globale per poi scoppiare, costringendo decine di migliaia di professionisti ad aggiornare il curriculum. Tra i settori interessati dal fenomeno ce n’è in particolare uno che sta attraversando un momento di grande crisi, la cui flessione ha origine da un eccesso di prosperità e aspettative. Si tratta del mercato dei videogiochi, arte e hobby che, come altri pilastri della cultura pop, è recentemente riuscito a emanciparsi dagli stereotipi del nerd secchione e sfigato. Oggi la diffusione dei videogame è capillare, grazie in primis al mondo smartphone che può rendere chiunque, anche l’anziano appassionato di Candy Crush, un videogiocatore. C’è però una frattura nella colonna vertebrale dell’industria, cioè il mondo console/pc, la principale fonte di innovazione e sviluppo di questo ambito. Nel 2023 il mercato dei videogiochi è arrivato a valere 183 miliardi di dollari, un valore complessivo che cresce (quasi) ininterrottamente da cinquant’anni. Nonostante le alte vendite di console e software, continuiamo ad assistere alla raffica di licenziamenti da parte delle grandi case videoludiche. Stando ai dati raccolti da Fahran Noor e alle elaborazioni della redazione del sito specializzato Polygon, a giugno 2024 sono stati mandati a casa diecimila esperti del settore, più del totale dell’anno precedente. I colossi alleggeriscono il personale e chiudono interi studi, ma non sempre queste operazioni vanno di pari passo con l’andamento economico dell’azienda. Microsoft ha licenziato oltre 2500 dipendenti della sua divisione gaming e chiuso importanti studi recentemente acquistati, nonostante il settore dell’intrattenimento videoludico sia ora il terzo più remunerativo dell’azienda (stando ai dati dell’ultimo trimestre 2023), superando persino Windows. Se l’industria videoludica non è in crisi, perché tagliare?
Una bolla pixelata
Secondo Fabio “Kenobit” Bortolotti, giornalista videoludico, localizzatore di videogiochi, musicista 8-bit e artivista, «il problema, fa ridere dirlo, è ancora una volta il capitalismo. Le grandi multinazionali dei videogiochi sono corporazioni con consigli di amministrazione che hanno bisogno di crescita perenne e costante, che non è sostenibile a lungo termine». La spinta alle grandi assunzioni, con i conseguenti licenziamenti di massa post Covid-19, è solo l’ultimo elemento che ha condizionato la bolla dell’industria videoludica. Per Bortolotti, il principale problema del mercato è che, dalla sua nascita, è sempre cresciuto: «Per lungo tempo i videogiochi sono stati drogati, perché il settore sembrava crescere all’infinito. A parte un solo periodo di crisi dell’industria videoludica [quello del mercato nordamericano del 1983-85, legato alle pessime performance di vendita del gioco di E.T. l’extraterrestre per la console Atari 2600, ndr], per anni il settore è cresciuto a doppia cifra, puntando all’infinito». Dal 1971, anno di uscita di Computer Space – prima console arcade venduta su larga scala – il valore del mercato è lievitato ininterrottamente. Una crescita del genere fa ovviamente gola agli investitori. Uno scenario idilliaco, finché non si è giunti all’ultimo decennio quando, di pari passo, il mercato si è saturato e i grandi titoli che trainano le vendite, i cosiddetti tripla A, hanno perso carica innovatrice e fascino, assomigliandosi sempre più. «Il videogioco non morirà, ma cambierà», chiosa Bortolotti. «L’economia può attutire o rallentare il crollo, ma l’industria videoludica è in crisi: siamo davanti a un sistema che ha dimostrato di non poter più vivere come ha fatto fino a ora».
Il prossimo livello dopo la crisi dell’industria videoludica
Per Bortolotti, «il colpo di grazia lo ha dato il Covid-19, che ha drogato ulteriormente il settore, ma erano già presenti crepe. Se le vendite restano le stesse, la logica della crescita infinita ricade sul consumatore. C’è un’erosione del valore di ciò che viene venduto, il videogioco: stesso prezzo, ma valore minore». Con un bacino di utenti che su console ha quasi raggiunto la saturazione e gli investitori che bussano alla porta, le “soluzioni” che l’industria ha scelto per impedire l’arresto della crescita, ormai data per scontata, sono le solite offerte dal capitalismo selvaggio.
Un primo esempio lo si trova nel cambiamento del modello di business, orientato all’acquisto di contenuti aggiuntivi all’interno del gioco, i cosiddetti downloadable content, che possono ampliare l’esperienza o avere una mera funzione estetica, come accade con costumi alternativi in giochi gratuiti come Fortnite. Ci sono poi i tagli al personale e ai tempi di lavoro, che comportano, tra le altre conseguenze, il rilascio sempre più frequente di giochi incompleti e con evidenti problemi tecnici, aggiustati solo in un secondo momento tramite aggiornamenti (ne è un esempio quanto avvenuto con Final Fantasy XV).
A risentirne sono la qualità e l’esperienza di gioco, qualità secondarie per le aziende del settore rispetto al pareggio dei conti. Bisogna infatti inserire nell’equazione il fatto che nel panorama dei colossi videoludici solo Nintendo, la casa di Super Mario e Zelda, è un editore “puro”. Playstation e Xbox appartengono a multinazionali (rispettivamente Sony e Microsoft) per le quali il gaming è una delle tante divisioni aziendali. Prima il bilancio, poi il gameplay.
Nuovi modelli
Produrre un videogioco tripla A comporta investimenti che possono arrivare a decine di milioni di dollari, nonostante il mercato sia ancora più vasto di quanto offerto dalle teste di serie. Pensare a un modello alternativo di business non è semplice. Ci aveva provato Google, che aveva promesso di rivoluzionare il mercato con Stadia, servizio basato sul cloud gaming che permetteva di giocare a titoli complessi anche su dispositivi sprovvisti di grandi capacità di calcolo.Il progetto, però, è fallito nel 2023, a tre anni dal lancio, sia per limiti infrastrutturali sia per il generale disinteresse degli sviluppatori allo strumento e a causa del disinvestimento di Google nel settore.
Il ruolo dell’apripista verso il futuro dell’industria è ora reclamato da Microsoft, che con il servizio Game Pass permette tramite abbonamento di giocare in streaming come Stadia, ma aggiungendo un vasto catalogo di titoli dal quale attingere. Perché acquistare 80 euro di gioco quando con poco più di 14 euro al mese posso immergermi ogni giorno in un’avventura diversa? «È il processo di “netflixizzazione” dei videogiochi. Come Netflix si propone come servizio imbattibile, ma in realtà l’abbondanza è a scapito del consumatore. Basti pensare alla percezione che si ha oggi di Netflix rispetto a ciò che si diceva dieci anni fa», commenta Bortolotti. «L’obiettivo è impostare il business model dell’intero mercato come vogliono loro. Quella che Microsoft propone come àncora di sicurezza si presenta in realtà come un primo step di un processo assimilabile a ciò che Netflix ha fatto con l’intrattenimento: l’accentramento del potere in poche realtà».
Respawnare un settore
Se l’industria mainstream sta implodendo per colpa di uno sfasamento fra interessi economici ed economia reale del mercato, neanche guardando alle realtà videoludiche indipendenti è possibile rallegrarsi. «La dimensione “punk” non sarà la salvezza del settore, ma potrebbe essere il punto di inizio per la ricostruzione dopo il crollo. Al momento, però, è troppo di nicchia e difficilmente sostenibile da un punto di vista economico», chiosa Bortolotti. Pronti al game over?